Stiamo andando incontro a una fame di massa?

L’esistenza stessa della fame e, ancor più, di sacche di fame vera e propria, ha talvolta incoraggiato l’idea che stiamo assistendo al dispiegarsi di una vasta tragedia malthusiana. Inesorabilmente, si suggerisce, questa arriverà a inghiottire una fetta consistente dell’umanità. Le tensioni inconciliabili tra chi ha e chi non ha faranno sprofondare la società in uno stato di barbarie senza fine.

Naturalmente, se questo fosse davvero il caso, ci sarebbero indubbiamente forti motivi per pensare che un’alternativa post-capitalista al capitalismo sarebbe completamente preclusa. Quei “verdi profondi” di ispirazione malthusiana che ci presentano abitualmente questo scenario desolante, troppo spesso accompagnato da dichiarazioni sorprendenti sulla falsariga del memorabile commento dell’agente Smith in Matrix, secondo cui «gli esseri umani sono una malattia, un cancro di questo pianeta», farebbero bene a considerare le implicazioni di ciò che dicono. Se non c’è speranza per il futuro, allora dovremo convivere con il sistema stesso che ci ha portato a questa triste impasse. La concorrenza brutale e senza vincoli sarebbe l’unico gioco ammesso. E saremmo prossimi ad esprimere sentimenti così insensatamente misantropici da concepire l’abbattimento calcolato dei propri concittadini. Potremmo anche metterci a costruire i nostri bunker, fortificare le nostre comunità recintate e attendere fatalisticamente l’apocalisse imminente come in una scena di The Walking Dead.

Decisamente fuori strada

Negli anni ’60 e ’70 apparve una serie di libri dal tono uniformemente allarmistico. Nel 1967 William e Paul Paddock parlarono di questa presunta catastrofe globale incombente e raccomandarono vivamente di applicare il principio medico del “triage” (praticato nella Prima Guerra Mondiale per decidere quali soldati feriti dovessero essere curati e quali lasciati morire), dando aiuti alimentari solo a quei paesi che potevano essere salvati, lasciando morire gli altri. (William Paddock & Paul Paddock, Famine 1975! America’s decision: who will survive?, 1967). Paul Ehrlich rafforzò questo messaggio di sventura imminente nel suo best seller The Population Bomb (1968), dichiarando che «La battaglia per sfamare tutta l’umanità è finita. Negli anni ’70 il mondo sarà colpito da carestie: centinaia di milioni di persone moriranno di fame». E il rapporto del Club di Roma del 1972, I limiti dello sviluppo, [1] prevedeva con apprensione che il mondo stesse rapidamente esaurendo le risorse chiave a fronte di una crescita demografica inarrestabile.

In realtà, tutte queste terribili previsioni di un disastro imminente si sono rivelate del tutto errate. Come ha sottolineato il sostenitore [2] del libero mercato Julian Simon in The Ultimate Resource (1981), gli aumenti dei prezzi alimentari a breve termine dei primi anni ’70, causati da fattori quali la siccità, la decisione dei russi di importare mangimi per incrementare il consumo di carne e i tentativi concertati di ridurre le enormi scorte alimentari dei decenni precedenti, non potevano dirci molto, se non nulla, sulle tendenze a lungo termine del prezzo (e quindi della disponibilità) degli alimenti. In effetti, i cattivi raccolti dei primi anni Settanta hanno poi lasciato il posto alle scorte, con un crollo dei prezzi dei cereali che ha suscitato la costernazione degli agricoltori statunitensi in particolare.

Lo stesso vale per gli eventi più recenti. Nei pochi anni fino al 2008, i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati costantemente, ma poi sono diminuiti in modo drammatico, anche se non proprio ai livelli precedenti. Successivamente, a partire dal giugno 2010, il prezzo di alcuni prodotti alimentari, come il grano, è nuovamente aumentato – in questo caso di quasi il 50% in due mesi – in seguito alla decisione della Russia di congelare le esportazioni di grano dopo un’altra grave siccità (Global wheat crisis recalls Moscow’s “great grain robbery”, Observer, 8 agosto 2010).

Fluttuazioni a breve termine di questa natura nel prezzo dei prodotti alimentari sono prevedibili e spesso guidate da speculazioni. Tuttavia, sostiene Simon, la tendenza storica è quella di una graduale riduzione dei costi dei prodotti alimentari man mano che l’agricoltura diventa più produttiva ed efficiente. Ciò è di buon auspicio per affrontare il problema della povertà globale.

La domanda di cibo, dopo tutto, è relativamente non elastica, cioè non varia molto in base alle variazioni dei prezzi dei prodotti alimentari. Poiché il cibo rappresenta una componente significativa del costo della vita dei poveri del mondo (che in genere spendono almeno metà del loro reddito in cibo), i benefici di una riduzione dei prezzi a lungo termine sarebbero di vasta portata. Significherebbe che avrebbero più soldi da spendere per cose come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Ne deriverebbe un circolo virtuoso di auto-miglioramento. Una popolazione più istruita e più sana sarà anche più produttiva e l’aumento della produttività genererà a sua volta ulteriori benefici. Tuttavia, è vero anche il contrario. La non elasticità del cibo come priorità umana significa che qualsiasi aumento dei prezzi obbligherà le persone a tagliare proprio su queste altre cose che potrebbero essere utili nel lungo periodo.

Per quanto riguarda l’ossessione malthusiana per la crescita della popolazione, sostiene Simon, lungi dal costituire una minaccia per gli standard di vita, è vero l’esatto contrario. Anzi, contribuisce a innalzare questi standard aumentando la produttività dell’agricoltura stessa – ad esempio, rendendo economicamente più fattibile lo sviluppo di buone reti stradali che rendono più facile e meno costoso il trasporto dei prodotti e degli input agricoli. Alcune delle zone più ricche del mondo, del resto, sono anche quelle più densamente popolate. Così come esistono economie di scala nella produzione, esistono anche economie di scala nelle dimensioni della popolazione.

Ottimismo del libero mercato

L’ottimismo tecnologico di Simon, di stampo panglossiano, e la sua fiducia incondizionata nel fatto che l’economia di mercato fornisca i prodotti a tempo debito, sono giustificati per alcuni aspetti, ma non per altri. Per cominciare, i prezzi dei prodotti alimentari, nel complesso, non sembrano seguire la tendenza generale da lui prevista. Tendono a essere volatili – più che per altri beni – e mentre molti prodotti alimentari sono diventati più accessibili per lunghi periodi di tempo (se si confronta il guadagno settimanale mediano con il prezzo medio di alcuni prodotti alimentari), di recente i prezzi dei prodotti alimentari sembrano essere aumentati per varie ragioni e, soprattutto, hanno stabilito nuovi record. È francamente difficile far quadrare questo dato con l’idea di una tendenza al ribasso a lungo termine. Quest’ultima sembra più un articolo di fede che una deduzione basata su una rigorosa indagine scientifica.

Come ha osservato Otaviano Canuto:

«L’indice mondiale dei prezzi alimentari registrato negli ultimi sessant’anni dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) ha toccato il suo record più alto a marzo, per poi diminuire leggermente ad aprile. Pandemia, guerra e morte in Ucraina e siccità negli ultimi due anni… Una tale combinazione sembra apocalittica. Ora si aggiunge il rischio di una fame globale, a causa della crisi dei prezzi alimentari» (Otaviano Canuto, The Global Food Price Shock, Policy Center for the New South, 18 maggio 2022).

Altri fattori, come sottolinea l’articolo, come le interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno innescato l’accumulo di scorte alimentari e il divieto di esportazione, nonché le restrizioni alla mobilità della manodopera agricola migrante che hanno avuto un impatto negativo sui raccolti in molte parti del mondo, hanno contribuito a far salire i prezzi a questi livelli record. Alla base di questi diversi fattori c’è la divisione del capitalismo moderno in stati nazionali e gigantesche corporations in competizione tra loro.

Una manciata di queste ultime controlla la maggior parte del commercio globale di cereali e queste società, in particolare dopo l’inizio della guerra in Ucraina (l’Ucraina è un importante esportatore di cereali), hanno accresciuto in modo significativo i loro margini di profitto aumentando i prezzi (anche se a spese dei margini di profitto in altri settori dell’economia). Un quadro simile di oligopolio aziendale si ha nel caso dei fornitori di input agricoli come sementi e fertilizzanti, con solo tre multinazionali – Bayer-Monsanto, Dupont-Dow e Chem-China Syngenta – che controllano il 60% del commercio. E tra i dettaglianti, solo 10 aziende di generi alimentari rappresentano la metà di tutte le vendite di prodotti alimentari nell’UE (Fiona Harvey, Food price rises around the world are result of ‘broken’ system, say experts, The Guardian, 24 agosto 2022).

Questa situazione oligopolistica è ben lontana dalla visione rosea del capitalismo dei piccoli negozi all’angolo promossa dai devoti del libero mercato, come Simon. In effetti, se tale visione dovesse magicamente materializzarsi, si può tranquillamente supporre che ci riporterebbe ineluttabilmente, prima o poi, alla stessa situazione in cui ci troviamo ora. La concorrenza stessa, dopo tutto, tende a generare monopoli o oligopoli. I forti tendono a scacciare i deboli. In ogni caso, il risultato che abbiamo ora è un sistema alimentare che, secondo molti commentatori, è irrimediabilmente compromesso. Non lavora solo contro gli interessi dei consumatori che devono pagare per questi prezzi alimentari più alti, ma anche di numerosi piccoli agricoltori, che lottano per sopravvivere di fronte ai costi crescenti.

Abbastanza per dieci miliardi…

Eppure, nonostante tutto, questo stesso sistema alimentare ha anche dimostrato di avere un potenziale per garantire un’abbondanza alimentare, anche se non riesce a mantenere la promessa. Secondo una fonte spesso citata, anche se un po’ datata, il mondo, guarda caso, già coltiva abbastanza cibo per sostenere dieci miliardi di persone, a fronte di una popolazione globale di otto miliardi (Holt-Giménez, Eric & Shattuck, Annie & Altieri, Miguel & Herren, Hans & Gliessman, Steve, We Already Grow Enough Food for 10 Billion People … and Still Can’t End Hunger, «Journal of Sustainable Agriculture», 36 (6), Luglio 2012, pp. 595-8).

Inoltre, contrariamente alle terribili previsioni malthusiane di una popolazione in crescita esponenziale, la crescita della popolazione ha raggiunto il suo picco negli anni ’60 e da allora sta rallentando. Nel 1950, il tasso medio di natalità era di circa 5 figli per donna; nel 2021 era sceso a 2,3, secondo la United Nations Population Division, con un mondo sempre più urbanizzato (World Population Prospects: Summary of Results, UN Report 2022). In parte questo è dovuto al fatto che, vivendo in città, non si ha bisogno di altri bambini per badare al gregge di capre o per curare i raccolti. Inoltre, vivere in città significa avere un migliore accesso alle medicine che hanno ridotto significativamente i tassi di mortalità infantile. Se in passato le persone avevano famiglie più numerose era proprio perché molti dei loro figli morivano giovani.

Il calo delle nascite ha fatto sì che un numero crescente di paesi stia sperimentando una crescita inferiore, o negativa, rispetto al livello di sostituzione tanto che, sorprendentemente, si esprime sempre più preoccupazione per la prospettiva di uno spopolamento e di un invecchiamento costante della popolazione, piuttosto che della sovrappopolazione. Alcuni paesi, preoccupati per l’indebolimento della loro influenza sulla scena internazionale, hanno iniziato ad adottare politiche a favore della natalità al fine di invertire il loro relativo declino demografico. Per loro il legame tra potere e popolazione è evidente: in un’economia globale competitiva è meglio essere grandi.

…allora perché la fame?

Tuttavia, nonostante il suddetto potenziale produttivo per nutrire adeguatamente il mondo, la fame, in modo apparentemente sconcertante, continua a segnare la vita di centinaia di milioni di persone:

«Le Nazioni Unite stimano che più di 820 milioni di persone siano sottonutrite, con un aumento di 60 milioni in cinque anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi un quarto dei bambini al di sotto dei cinque anni è denutrito e 1,9 miliardi di adulti sono in sovrappeso» (John Vidal, The Guardian, 4 marzo 2021).

Come è possibile? Se la produzione agricola è già più che sufficiente a soddisfare il fabbisogno della popolazione mondiale, perché così tanti soffrono la fame? Perché la maggior parte del cibo prodotto oggi viene prodotto per essere venduto sul mercato e quindi l’accesso ad esso dipende dal potere d’acquisto. Se non si hanno i mezzi per acquistare il cibo, in un’economia di mercato lo si vede negato. Questo spiega essenzialmente perché oggi le persone soffrono la fame. Non sono in grado di esprimere una “domanda di mercato” sufficiente a soddisfare i loro bisogni. È così semplice.

Chi non guadagna molto si trova di fronte a un problema serio. Se il prezzo del cibo aumenta, il problema si aggrava ulteriormente. Ecco perché l’aumento dei prezzi degli alimenti si traduce in un numero sempre maggiore di persone che soffrono la fame. Queste persone possono scegliere di destinare una parte crescente del loro piccolo budget all’acquisto di cibo e una parte minore ad altre cose, ma arriverà un momento in cui questo non sarà più fattibile. Qualcosa dovrà pur cedere. Quando ciò accade, spesso si verifica un’esplosione di rivolte per il cibo e di violenza nelle strade che può, e ha già fatto, rovesciare i governi.



Note

[1] Giorgio Nebbia, nel suo volume Le merci e i valori: per una critica ecologica del capitalismo, Jaca Book, Milano, 2002, sostiene che il titolo del documento del Club di Roma del 1972 avrebbe dovuto essere più opportunamente I limiti della crescita, in quanto parla appunto del rapporto fra aumento della popolazione mondiale e limite delle risorse alimentari.

[2] L’autore dell’articolo gli affibbia l’epiteto «cornucopiano», attribuendogli metaforicamente l’idea di un libero mercato capace di fornire illimitatamente ogni bene e risorsa.

Robin Cox